sabato 21 novembre 2009

Il silenzio degli innocenti


Bellissimo film, e bellissimo titolo, che ho "piratato" per poter sintetizzare in maniera efficace i lunghi mesi di assenza da questo blog.
Gli innocenti, in questo caso, sono la gente come me, gli ingenui appassionati che profondono fiumi di energia in tutto, per poi trovarsi svuotati quando si tratta di cose che riguardano loro stessi. I miei piaceri, i miei divertimenti, le mie passioni, i miei interessi, sono comunque secondari rispetto ai doveri, alle necessità, alla quotidianità, al lavoro, agli altri in generale. È una mia scelta, e l'ho fatta con gioia, ma è anche una scelta che comporta il lasciare in secondo piano cose apparentemente futili, come ad esempio questo blog, per poter dedicare tutto il tempo che mi resta agli altri impegni. Agli altri.

Gli innocenti sono anche le persone, come me, che non hanno colpe ma subiscono conseguenze, che "tirano" nonostante tutto e tutti ma non hanno un attimo di requie dal giogo, tanto da arrivare a chiedersi, quando proprio sono allo stremo, "ma chi me lo fa fare?". Per poi sentirsi in colpa. Perché gli innocenti, come me, hanno evidentemente problemi di autostima, sottovalutano il valore di quello che fanno e, dato che sono innocenti, sono felici solo quando riescono a fare felice qualcun altro. Ovviamente, rinunciando alla propria felicità. Paradosso? Quale paradosso?

Ma gli innocenti sono anche persone che si incazzano. Soprattutto quando le assurdità diventano costume, norma e legge: quando si vedono i diritti (degli altri, ovvio) calpestati e derisi, quando la legge del più forte assurge a legge dello Stato, quando pezzo dopo pezzo ci si vede sottrarre tutto quello che intere generazioni hanno faticato a costruire, quando i diritti elementari, naturali di ogni singolo essere umano vengono negati ed offesi dall'arrogante tracotanza di chi crede di possedere le leve del potere, quando in realtà le ha solo in prestito e deve rispondere dell'uso che ne fa. Deve risponderne agli innocenti. Che sono tanti, all'apparenza passivi, generalmente intelligenti e molto, molto pericolosi quando permettono all'incazzatura di venire fuori. "Guardati dall'ira del buono", cita un proverbio: la storia tende a ripetersi, è evidente.

Il corollario a tutto questo è: rendi inoffensivi gli innocenti. Approfitta della loro innocenza, della loro ingenuità, della loro buona fede per convincerli che la loro rabbia è una colpa, che va tutto bene, che non potrebbe esserci mondo migliore e che i piccoli difettucci che ogni tanto appaiono qua e là si risolvono subito: basta lavorare di più, dare di più, chinare un altro po' la testa e darci dentro con lena, perché non possiamo fermarci adesso, ad un passo dalla meta, dalla terra promessa, dal paradiso perduto. Crea dei sensi di colpa e diffondili, costruisci paradisi artificiali di cartone, chimica e tubo catodico, fai danzare le Urì ogni volta che qualcuno alza la testa, e non guarderà altro. Non penserà ad altro. Non penserà. Mai più.

La natura è matrigna, a volte.

La controffensiva a tutto questo è solo apparentemente semplice: basta pensare con la propria testa, affinare i propri sensi, cogliere tutti i linguaggi che vanno oltre la valanga di parole inutili ed afferrare il vero significato delle cose. Una bazzecola.
Basterebbe essere allenati sin da piccoli...

Questo discorso sui massimi sistemi si sta allargando troppo. Evidentemente, non scrivevo da così tanto che mi è sbottato fuori un mare di parole non troppo coerenti, senza un rigoroso filo logico, ma tant'è: avevo deciso di riprendere, ed ho ripreso. Non riprendetemi per la mia incoerenza, tornerà col tempo.

martedì 4 agosto 2009

bellissimo

La scienza e la vita che coincidono...

ora provo a vedere se funziona

World Science Festival 2009: Bobby McFerrin Demonstrates the Power of the Pentatonic Scale from World Science Festival on Vimeo.

... meraviglioso... in tutti i sensi.

Che cosa fantastica la mente umana!

domenica 19 luglio 2009

Cibo per l'anima

Bene, sono giunto alla conclusione che il cibo per l'anima è il cibo stesso. Meglio, la preparazione dello stesso. È domenica, ci siamo alzati tardi, l'aria non troppo rovente di questo torrido luglio ha lasciato un po' di requie alle stanche membra e ci siamo messi, io e Donatella, a preparare varie cose per il pranzo di oggi e per la settimana. Battuti di aglio e prezzemolo, carne trita da impastare con uova e pane ammollato nel latte, polpette e polpettoni, salsa di pomodoro fatta in casa, dai pomodori dell'orto del vicino che molto carinamente ci regala, peperoni ripieni dello stesso impasto di carne delle polpette... non ne avevo, ma mi è venuta fame.

La cosa più bella, però, è stato il cambio d'umore che è sopravvenuto man mano che le preparazioni andavano avanti: ho sentito Donatella canticchiare, io stesso mi sono trovato a miscelare con energia ed entusiasmo, a mani nude, quasi due chili di carne trita, con una serenità d'animo che mi ha sorpreso.

Il cibo, da sempre, è uno dei centri dell'attività umana: dalle preparazioni degli chef superstellati al malinconico piatto pronto surgelato, è un fulcro attorno al quale ruotano cultura, quotidianità, interessi economici, lavoro di milioni di persone. Tuttavia, credo che una delle parti principali della sua essenza vada lentamente ma inesorabilmente svanendo... la preparazione del cibo, da quello di tutti i giorni ai menu per le occasioni speciali, viene sempre di più percepita come una fatica inutile, un di più rispetto al piacere primario del mangiare, del degustare, del semplice sfamarsi.

Sono dell'opinione che sia un grossolano errore. La preparazione del cibo è, credo debba essere, parte integrante del cibo stesso. Non a caso i pasti rituali più importanti prevedono tuttora una preparazione che deve essere rigorosamente manuale, e che è essenziale alla buona riuscita non solo del pasto, ma del rito in quanto tale. La celebrazione dell'agnolotto non è solo sedersi a tavola e gustarlo, ma prepararlo e trasferire nella degustazione tutto il racconto della preparazione stessa, come un'omelia concomitante alla comunione. Preparare il cibo partendo dalle materie prime, a volte coltivare o allevare le stesse materie prime, è un'operazione che coinvolge tutti i sensi, un training che prelude alla degustazione, all'assunzione di energia attraverso il cibo, trasformandola in qualcosa di più che mettere benzina nel serbatoio. È come se preparando da me il pasto, trasferissi una parte della mia energia nel cibo, energia che poi torna, moltiplicata dal piacere della degustazione. Non si dice sempre che le cose che ti prepari da solo (o quelle che ti preparava mamma, o nonna, o tua moglie...) hanno un sapore diverso? Non si continua a dire, nonostante tutto, che le cose fatte in casa sono migliori?

Certo, la scusa principale è, a buon diritto, "ma chi ha il tempo di mettersi a preparare le cose?". È vero, il quotidiano ormai viene completamente assorbito da attività di sopravvivenza di altro tipo, leggi principalmente lavoro, il poco tempo che rimane deve essere dedicato alle attività sociali, altrimenti si finisce per abbrutirsi, dunque non resta molto tempo da spendere in riti che vengono molto spesso visti come retaggi di ere antiche... e molto maschiliste.

Credo, però, che sia necessario un cambio di direzione. Non tanto, o non solo, a causa del tempo di crisi che stiamo vivendo (avete fatto il conto di quanto costa un'insalata già pulita in busta contro quella fresca da pulite?), ma piuttosto per recuperare una socialità che è antichissima, quasi atavica, imperniata tutta sul valore del cibo come elemento di sopravvivenza della comunità, come tale spesso elemento sacro (basti pensare a quali e quanti dèi fossero impegnati in attività legate al cibo) che andava diviso e condiviso con tutti.

A ben guardare, sarebbe quasi una svolta epocale... tornare indietro per poter andare avanti. Non sarebbe certo cosa indolore, né poco faticosa, ma comporterebbe un tale cambiamento di mentalità che forse, e sottolineo forse, si potrebbe riuscire a vedere la luce in fondo al tunnel. Che è a tutt'oggi piuttosto buio. Chissà, potrebbe essere illuminato da un fornello da cucina...

martedì 14 luglio 2009

Un minuto di silenzio

A quanto pare, questo è il valore medio di una vita umana. Un minuto di silenzio. Un altro ragazzo è morto in Afghanistan, altri sono rimasti feriti, l'ennesimo atto di una tragedia che non ha ancora scoperto il suo senso.

Paesi in un altro mondo, di un altro mondo, dove la nostra percezione della realtà sembrerebbe il sogno ad occhi aperti di un etilista cronico, dove la realtà del quotidiano convive con le armi e la violenza viene sentita come una normale compagna di vita. Paesi in cui piombano come alieni dei ragazzi, addestrati a combattere, ma non a vivere con la morte accanto, ancora pieni dell'atmosfera dei centri commerciali, con l'iPod nel taschino della mimetica, e Full Metal Jacket come modello di comportamento. Un film... che molto presto scivola nell'horror.

Non so immaginare come debbano sentirsi, sono troppo lontano, decisamente distante, ma posso immaginare il livello di straniamento che può colpirli assieme alla bomba, il raddoppiarsi di uno shock tremendo, in un istante. Una cosa così... a me? Ma non ero invulnerabile? Forse sbaglio, ma credo mi sentirei così.

Con tutto ciò, i culi caldi (scusate per il caldi) si costernano, si indignano, si impegnano, e indicono un minuto di silenzio. Forse, in quel minuto sarebbe stato il caso di far loro sentire il fragore dell'esplosione, le grida, le bestemmie, i lamenti, l'orrendo lacerarsi di carni e lamiere... proprio mentre stanno a capo chino, a pensare a tutt'altro. Forse, dopo, avrebbero apprezzato di più quel silenzio.

E avrebbero continuato a tacere.

domenica 12 luglio 2009

Kernel panic

Come in tutti i film che iniziano con un flash forward, già si sa che ho risolto. Tuttavia l'esperienza è stata traumatica, al limite dell'attacco di panico, e mi ha insegnato molte cose.

Premessa per i non utenti della mela morsicata: il cosiddetto kernel panic è il peggior segnale che un MacIntosh possa dare... d'improvviso una tendina grigia cala lentamente sullo schermo, ed una finestra di avviso ti informa che il computer è andato in crash, devi spegnerlo con la procedura d'emergenza, e sperare.

Ho eseguito, ovviamente, ma la speranza è stata tradita: il Mac, il MIO Mac, non si è riacceso. Lo schermo è rimasto ostinatamente nero, e le ventole hanno messo il turbo. Una, due, tre, quattro volte... niente. Tasto il case con l'ansia di una mamma che sente se il bimbo ha la febbre... è bollente. Inghiotto il rospo, devo aspettare che si raffreddi, mi dico. Un'ora e mezza dopo (una vita e mezzo, forse) tento di nuovo, lo ammetto, con mani leggermente tremanti. Il tradimento più grande: ancora nulla.

Sono ormai le undici di sera, provo a farmene una ragione, decido di non pensarci (ma si può?) e me ne vado a letto. Forse un tantino nervoso. Mi addormento tardi, e dormo male, alle cinque del mattino sono già sveglio. Gli occhi sbarrati a fissare le prime luci che riverberano sul soffitto, indeciso se provare ancora o no. Ma dura poco. Mi alzo, in silenzio, mi chiudo nella cameretta, al buio trovo l'accensione, la premo, aspetto.

Mai chiaror d'alba fu più bello.

Senza entrare nel merito del dopo (backup selvaggio, ovviamente), questa disavventura contiene dei profondi insegnamenti. Mi ha fatto capire che non sono invulnerabile, che "certe cose" possono capitare anche a me, che non sono immune da eventi fuori del mio controllo e che prendere precauzioni non è solo cosa buona e giusta, ma è un indispensabile antidoto contro la stupidità, propria o altrui che sia. Mi ha dato la misura della fragilità non solo mia ma delle strutture cui faccio affidamento nelle acrobazie del quotidiano, acrobazie che, come tutti, eseguo disinvoltamente, ma senza rete. Eppure proteggersi si può.. forse solo con un po' di fatica in più, ma ho avuto la prova provata che vale la pena.

Del resto, nessuno è invulnerabile, ma tutti possono diventare più forti.

martedì 30 giugno 2009

Le cose che devo fare

Le cose che devo fare sono la mia croce. La mia naturale e inveterata pigrizia fa sì che rimandi costantemente ciò che non amo particolarmente fare, col risultato di vederle accumularsi inesorabilmente, come le montagne di spazzatura che hanno infestato Napoli, qualche tempo fa. Forse ce ne sono ancora... ma non se ne parla. Così anch'io non parlo, come se tacere e nascondere potesse risolvere i problemi in mia vece, ma ho la disgrazia di non dimenticare, e so che prima o poi dovrò affrontare le mie personali forche caudine, tutte insieme, coi prevedibili risultati.

Le cose che devo fare sono tutte necessarie, indispensabili, generalmente utili, a volte sostanzialmente imprescindibili. Ma rimando. Deve essere una forma di autopunizione, di masochismo, un crogiolarsi nell'autocommiserazione che giustifica e fornisce alibi a sensi di colpa di dubbia e incerta provenienza.

Poi, d'un tratto, prendi una decisione e fai una cosa. Una di quelle che proprio dovevi fare. E ti senti un po' meglio. Raddrizzi le spalle, fai un bel respiro, ti pavoneggi anche un po'. E, ma guarda che strano, ti viene voglia di farne un'altra. Perché quella sensazione è stata proprio bella, appagante, liberatoria. Ti ha dato l'impressione di essere il padrone del vapore, l'omino Black&Decker, Wolf, quello che risolve problemi. Perché non ripetersi? Fanne un'altra, e poi un'altra ancora, in un parossismo di attività che riscatti una volta per tutte gli anni di ignavia consapevole e colpevole.

Questi due ritratti sono le mie due facce, i due lati di una medaglia non particolarmente meritata che gira come una trottola impazzita, frullando nell'aria in un bagliore confuso prima di ricadere a terra.
La parola chiave è "confuso". Ammetto di esserlo, forse più della media, e reagisco alla mia confusione con un vago senso di irritazione che mi porta verso posizioni anarchiche, quasi a staccarmi dai doveri imposti per essere, per sentirmi libero di fare quello che ritengo giusto. E di cose ne faccio, alla fin fine. Difficilmente, però, sono le cose che devo fare.

Ma questo, in fondo, è solo un alibi.

venerdì 5 giugno 2009

Gratificazioni

Dopo tanti anni, dopo tanto stare "below the line", dopo tanto fare e disfare senza nessuna pretesa, dopo che ho dato sapete cosa, e non sapete quanto, dopotutto, qualche gratificazione finalmente arriva. Oh, nulla di speciale, in fondo, né mi aspettavo chissà che cosa, ma dei ringraziamenti di cuore, la certezza di avere fatto un buon lavoro, di avere avuto l'idea che ha sbloccato una situazione importante, un bel progetto in crisi che si è rimesso in piedi, conciliare personalità apparentemente contrastanti fino all'incompatibilità... effettivamente è gratificante.

Il fatto, in sé, è forse non particolarmente significativo, tranne per i presenti, ma credo che segni un punto di svolta nella mia attività. Spero solo di saperlo cogliere nel modo giusto... facciamo un po' di cronistoria: oggi, per la prima volta in quattordici anni che lavoro per la stessa azienda, sono stato mandato fuori ufficio, cosa già di per sé straordinaria, per partecipare ad una riunione con un cliente... da solo ed in veste di responsabile per la grafica! Perdinci, ancora un po' e divento il direttore artistico! Non basta, la riunione aveva una criticità per via della contestazione dello stile della giornalista che coordina e redige i testi... una seria professionista ed un'amica, che ho sofferto a vedere in difficoltà. Per farla breve, l'incomprensione tra lo chef (oh, ovviamente è un libro di cucina) e la mia amica stava facendo salire la tensione alle stelle, ed a poco serviva il mio materiale, che pure tutti continuavano a lodare senza entrare troppo nel merito, per rasserenare l'atmosfera. Quando mi sono reso conto che i toni stavano salendo un po' troppo, ho preso il coraggio a due mani (sic!) e sono intervenuto. Ho detto la mia, senza riflettere troppo, badando più ad un accento di conciliante professionalità che non al contenuto... e mentre parlavo (mirabilia!) sono accadute due cose: primo, mi stavano ascoltando tutti... secondo, da non so dove, ho tirato fuori un'idea che ha messo tutti d'accordo, e che (mirabilia due!) funziona perfettamente!

Ragazzi, è stato un momento irripetibile... il mio spirito pavone ancora gongola.

La carica che mi ha dato questo in fondo piccolo evento mi ha fatto riflettere sul valore che la gratificazione ha per chi lavora, quale che sia il lavoro che fa. Essere gratificati, molto spesso, fa la differenza tra un lavoro ben fatto ed uno totalmente inutile. Essere gratificati può anche non avere una valenza economica, anzi, molto spesso un ringraziamento  fatto bene vale più di mille aumenti di stipendio (per quanto... ogni tanto...), ma soprattutto la gratificazione ha il significato profondo del rispetto verso chi lavora e verso il lavoro che svolge, ed è una cosa che dovrebbe essere assolutamente normale, quasi ovvia, per un datore di lavoro di qualsivoglia tipo. Rispettare il lavoro, e la persona che lo fa, è una delle molle più potenti per realizzare qualsiasi cosa, per generare entusiasmo, attenzione, dedizione, diminuire in maniera drastica gli errori, ottenere il mitico "presto e bene" che è benzina indispensabile per il motore economico generale. La domanda che sorge spontanea è: ma perché è così difficile da capire? Lavoro, e si può dire che vivo, in un'azienda dove il concetto fondamentale è "chi lavora per me mi sta fregando qualcosa", e non a caso la crisi si è sentita, eccome... e chi è rimasto sta stringendo i denti e la cinghia per superare il senso di disagio di questo presupposto. È qualcosa che "inquina" nel senso più deleterio del termine, avvelena i rapporti non solo tra il lavoratore e il datore di lavoro, ma tra gli stessi dipendenti: astio e ripicche, il "non è una mia mansione", denigrare costantemente il lavoro altrui non è un bel modo per lavorare in squadra. Eppure basterebbe così poco... e, nel mio piccolo, cerco e cercherò sempre di dare l'esempio. Anche perché mi diverte lavorare, e voglio continuare a divertirmi, a dispetto di tutto e di tutti, nella mia disinvolta anarchia, nella mia istintiva professionalità, con tutte le mie forze.

Perché credo che il diritto al lavoro e il diritto alla felicità sono in buona sostanza la stessa cosa.

mercoledì 13 maggio 2009

Non sono scomparso...

... sto solo riflettendo.

mercoledì 25 marzo 2009

Pulizie di primavera


È primavera già da quattro giorni, oggi è anche una bella giornata, limpida e azzurra... è proprio ora di fare un po' di pulizie di primavera. La finestra davanti a me inquadra delle anziane signore che già si danno dattorno a sciorinare lenzuola e copriletti, azzurri come il cielo, in una lenta e frenetica danza da formiche operaie.

È tempo di pulizia, dentro e fuori, è tempo di rinnovare l'aria, di togliere la polvere, tornare a sentire l'ebbrezza dell'aria fresca che tonifica la mente e il corpo. Tornare a vivere, insomma. L'essenza stessa del concetto di primavera.


È stato un inverno duro, cupo, freddo e non solo in senso meteorologico. Pessime previsioni, pessime aspettative, pessima realtà quotidiana. Ma siamo comunque sopravvissuti, siamo comunque andati oltre, con una tenacia che non si sospettava avessimo, che io non sospettavo di avere. Questo deve pur significare qualcosa, no? Qualunque cosa sia, è bello che ci sia. Abbiamo provato una volta di più che è difficile abbatterci, che esiste una forza positiva che resiste, resiste, resiste, testardamente resiste, a dispetto anche dell'evidenza dei fatti.


Quest'ennesima prova, in fondo (molto in fondo) ha avuto anche un lato positivo: lo scemare delle risorse ha costretto un po' tutti a rivedere le priorità, ad eliminare sovrastrutture posticce e fittizie, desideri indotti ed artificiali, bisogni inesistenti per concentrarsi su quello che serve realmente, sui livelli minimi di sopravvivenza, e solo dopo, con quello che avanza, se avanza, dare un po' di sapore.


Ora, la chiamata alla nuova vita della natura, la primavera, impone un'altra riflessione: dove vogliamo crescere? In che direzione, con quali regole, con quali risorse, per costruire che cosa? Indietro non si torna, questo è assodato: la demolizione del sistema che esisteva è stata totale, checché ne dicano i media, quindi siamo ad un momento di svolta radicale. Tocca solo vedere chi guida...


E qui siamo messi maluccio, direi.

sabato 28 febbraio 2009

Decline and fall of Roman Empire

Il declino e la caduta dell'impero romano: un volumone che ho solo sentito citare, non ricordo se in un film, in un fumetto o dove, ma il cui titolo ben si adatta alla situazione attuale. Declino in atto e caduta prevedibile tra breve, si potrebbe dire, vista la situazione che si sta prospettando. Molti economisti hanno detto che l'attuale crisi può e deve essere un'occasione per un cambiamento radicale, per una revisione seria e profonda dei sistemi che reggono l'economia e la politica del mondo occidentale. Allo stato dell'arte, nell'italietta nostra, sembra che l'occasione sia stata colta dai soliti furbetti del quartierino per forzare in maniera definitiva il sistema a loro esclusivo favore.

Ronde, intercettazioni, testamento biologico, tremontibond, sono solo alcune delle icone dietro le quali si celano alcune delle porcate più assurde e gravi degli ultimi decenni, che già di per loro sono stati prodighi di colossali scemenze... senza parlare della disperazione assoluta della gente che viene travolta in prima persona da queste "risposte del governo" alla crisi epocale che stiamo vivendo.

Eppure, nulla trapela. Manifestazioni di migliaia di operai bellamente "schizzate" dai TG, inferni in terra che non sono presi minimamente in considerazione, rigurgiti di "legge e ordine", che riecheggiano sinistramente pezzi di storia drammaticamente già vissuti e che vorremmo lasciarci alle spalle, che altro non fanno che aumentare l'esasperazione e la sofferenza, senza peraltro minimamente colpire la vera criminalità... l'elenco potrebbe continuare ancora a lungo, ma diventerei noioso.

Forse, la chiave di lettura della mancata reazione della gente comune, del famigerato "uomo della strada" a tante e tanto drammatiche assurdità è proprio nella noia, nell'assuefazione al peggio, nel volere, nel dovere chiudere occhi, bocca e orecchie per poter continuare a sopravvivere, in una sorta di "sindrome delle tre scimmie" indotta per mantenere alto il controllo degli schiavi.

Certo, schiavi: senza catene ai polsi, senza nerbate sulla schiena, ma pur sempre schiavi, intesi come non liberi, impossibilitati ad esprimere la propria personalità, le proprie capacità, impastoiati in una ragnatela malefica fatta di leggi, norme, regolamenti, procedure, burocrazia, inefficienza, connivenza e malaffare che di fatto bloccano qualunque tentativo di rinnovamento, di costruzione di un sistema diverso, di associazione tra le persone per risolvere i problemi del loro quotidiano, e non sto parlando delle ronde, impediscono che la voce della gente possa dire qualcosa, qualsiasi cosa, per reindirizzare i sistemi di governo. Schiavi, appunto.

Buoni solo per generare consenso, vero o falso che sia, rigorosamente decerebrati, naturalmente od artificialmente, perché uno schiavo intelligente è uno schiavo pericoloso, utili solo per legittimare il potere (il "voto", l'unità di misura del potere, non ha niente a che vedere con la democrazia), spremuti come limoni economicamente, moralmente, fisicamente... schiavi, quindi.

Oh, certo, provate a dire una cosa del genere in un talk show e vi salteranno alla gola, da destra come da sinistra: la schiavitù è illegale, immorale, è stata bandita dalla nostra società da centinaia di anni (sic!), ma come ti permetti, siamo una democrazia libera, i cittadini sono tutti uguali... e via discorrendo. 
Provate un po' a pensare, però, a quanti sinonimi della parola "schiavo" esistono, e quindi a quante forme di non libertà, e provate poi a pensare a quanti sinonimi di "libero" esistono... la disparità è evidente. A me, per esempio, non vengono in mente, sinonimi di "libero"... la libertà è una, ed una sola. Ma può essere distrutta in molti modi...

Ho come un vago senso di amaro in bocca, un sapore disgustoso che prende allo stomaco e induce alla depressione. Ma non voglio, non posso deprimermi. Sono ancora a metà circa della mia vita, se la salute mi assiste, ed ho ancora il tempo per costruire qualcosa. E, perdiana, ho intenzione di costruire qualcosa, alla faccia di tutte le catene immaginarie o reali che esistono. Devo solo trovare il modo.

In fondo, qualcuno è veramente evaso anche da Alcatraz...

domenica 1 febbraio 2009

Raccogliere le idee

Fermarsi e raccogliere le idee è, come molti già citati in altri post, un classico luogo comune. Oggi, però, ho verificato che molti luoghi comuni, questo in primis, hanno una loro valenza, una effettiva realtà che spesso, data la connotazione negativa di "luogo comune", viene dimenticata.
Oggi, in un intermezzo, in uno iato di tempo libero, ero qui, seduto al computer, senza fare niente, ed ho iniziato a fantasticare. Non pure e semplici fantasie, no, ma effettivamente un "raccogliere le idee", raccattarle qua e là nella mia testa, soppesarle, provare a svilupparle, a guardarle con occhio critico, etichettarle e riporle in buon ordine.

Nulla di strano o di particolare, tuttavia ne ho trovate un paio di buone, e mi ci sono perso per un po'. Non le starò a raccontare, troppo lungo e troppo difficile per il momento, ma la cosa più sorprendente non erano le idee in quanto tali, quanto il fatto di averne ancora! In effetti, avevo data per dispersa la mia fantasia, la capacità di inventare una cosa che non ho ancora mai visto in giro, partendo dai brandelli di informazioni, di sensazioni, di immagini che normalmente affollano gli angoli delle teste di ognuno. Mi ero oramai rassegnato al fatto di essere "vecchio" per la creatività in quanto tale, come mi avevano insegnato, ed invece ho ancora delle possibilità. La cosa mi rincuora alquanto.

Rincuora e spaventa un po', visto che le idee, da sole, non si realizzano... bisogna darsi da fare, e parecchio, tanto più quanto più l'idea è all'apparenza balzana e nuova. E queste, soprattutto una, sono di quelle parecchio balzane, ma che ti entrano in testa, si attaccano ad ogni angolo, e non ti mollano più... mamma, che fatica si prospetta!

È vero, sono pigrissimo, solo l'idea della fatica mi stanca, ma l'adrenalina che un'idea ti può dare non ha prezzo. Ti ricarica, ti rincuora, ti fornisce un'energia che non sospettavi di avere ancora, Ti dà modo di affrontare il quotidiano con una speranza in più, con una marcia in più, con una prospettiva diversa, con la voglia di fare, costruire, inventare, sperimentare, crescere.


Forse, non tutto è perduto...

domenica 11 gennaio 2009

Il libro delle facce

Ebbene sì: ho deciso di andare in controtendenza, ed ho disattivato il mio account su FaceBook. Con buona pace di chi lo trova indispensabile,  irresistibile, utile o solo divertente, ho tolto la mia faccia dal libro sostanzialmente perché lo trovo inutile, ed anche un po' infantile. Eppoi un suo uso "fruttuoso" ruberebbe troppo del mio già poco tempo. Aggiungiamoci che tendo a creare e dimenticare username e password con estrema facilità (colpa mia): ogni volta doversela far rimandare è un tedio assurdo.

Non sono certo nella posizione di poter muovere critiche sociologiche ad un fenomeno di massa, ma la mia sensazione è quella di un "muretto" virtuale, con tutti i pregi ed i difetti dello stesso, quelle dinamiche di gruppo che tutti, chi più chi meno, hanno passato, o stanno vivendo.
Eppure, il fenomeno sta diventando realmente di massa: persone insospettabili si "loggano" sul libro delle facce, la domanda "sei su FaceBook?" appare ormai di default anche nei talk show, e rispondere di no può essere solo una provocazione, un voler essere bastiancontrari a tutti i costi. Se ne pontifica, anche: star lì a discutere se questo o quell'aspetto del libro delle facce sia più o meno efficiente o confacente allo scopo (quale?) sta assumendo le tradizionali caratteristiche della discussione da bar dello sport. C'è da dire che anche i soggetti che ne parlano in quei termini corrispondono al profilo... ma sto diventando acido e cattivo, e non mi va.

Resta il fatto che ho tolto la mia, di faccia, dal libro. C'è chi dice menomale, ma sono le solite malelingue... basta non dar loro ascolto.
E quindi l'ho tolta. Non sono sicuro delle sensazioni che mi pervadono, ora, ma sono un misto di sollievo e di preoccupazione. Senza una ragione apparente, il fatto di non dover rispondere ad un altro pubblico consesso mi solleva, dall'altro, ho la sensazione di essermi isolato ancora di più dal mondo, in un tentativo di sfuggire ad un "buffer overflow" da iperesposizione. Sono connesso da poco, tre anni circa, ma è abbastanza per sapere che la rete è un mare, un oceano, e così come il mare va rispettata, o può sommergerti. Bisogna saper nuotare bene, bisogna conoscere le correnti, i venti, le secche... e dove trovare il pesce migliore. Non è concepibile, perlomeno per me, affrontare il mare senza un'adeguata preparazione. Da qui il corollario conseguente: non credo di essere preparato.

Eppure, ora, sono qui e ne sto scrivendo... sono in mare e nuoto. La differenza, se c'è, è sottile... e non sono sicuro di averla capita. Ma amo il mio blog, con tutti i suoi limiti, che sono i miei, e ne centellino le risorse, gustandole una per una, godendo del piacere dello scrivere, piacere solitario per elezione, senza sentirmi in contraddizione per non volere essere nel libro delle facce.

Sto scrivendo questo post in maniera discontinua, interrotto da cene, telefonate, giorni di pausa, quindi so da me che è un po' slegato, nella sua struttura. È il rischio del blog. Ma forse è proprio questo che me lo fa amare di più: questo suo comunque essere disponibile, in qualunque momento, a riprendere un discorso interrotto come nulla fosse successo, con la pazienza di un ascoltatore attento e discreto, senza aver nulla a pretendere più di un senso quasi compiuto, di una frase in corretto italiano.

In fondo, è esattamente quello che sono io.