martedì 30 giugno 2009

Le cose che devo fare

Le cose che devo fare sono la mia croce. La mia naturale e inveterata pigrizia fa sì che rimandi costantemente ciò che non amo particolarmente fare, col risultato di vederle accumularsi inesorabilmente, come le montagne di spazzatura che hanno infestato Napoli, qualche tempo fa. Forse ce ne sono ancora... ma non se ne parla. Così anch'io non parlo, come se tacere e nascondere potesse risolvere i problemi in mia vece, ma ho la disgrazia di non dimenticare, e so che prima o poi dovrò affrontare le mie personali forche caudine, tutte insieme, coi prevedibili risultati.

Le cose che devo fare sono tutte necessarie, indispensabili, generalmente utili, a volte sostanzialmente imprescindibili. Ma rimando. Deve essere una forma di autopunizione, di masochismo, un crogiolarsi nell'autocommiserazione che giustifica e fornisce alibi a sensi di colpa di dubbia e incerta provenienza.

Poi, d'un tratto, prendi una decisione e fai una cosa. Una di quelle che proprio dovevi fare. E ti senti un po' meglio. Raddrizzi le spalle, fai un bel respiro, ti pavoneggi anche un po'. E, ma guarda che strano, ti viene voglia di farne un'altra. Perché quella sensazione è stata proprio bella, appagante, liberatoria. Ti ha dato l'impressione di essere il padrone del vapore, l'omino Black&Decker, Wolf, quello che risolve problemi. Perché non ripetersi? Fanne un'altra, e poi un'altra ancora, in un parossismo di attività che riscatti una volta per tutte gli anni di ignavia consapevole e colpevole.

Questi due ritratti sono le mie due facce, i due lati di una medaglia non particolarmente meritata che gira come una trottola impazzita, frullando nell'aria in un bagliore confuso prima di ricadere a terra.
La parola chiave è "confuso". Ammetto di esserlo, forse più della media, e reagisco alla mia confusione con un vago senso di irritazione che mi porta verso posizioni anarchiche, quasi a staccarmi dai doveri imposti per essere, per sentirmi libero di fare quello che ritengo giusto. E di cose ne faccio, alla fin fine. Difficilmente, però, sono le cose che devo fare.

Ma questo, in fondo, è solo un alibi.

venerdì 5 giugno 2009

Gratificazioni

Dopo tanti anni, dopo tanto stare "below the line", dopo tanto fare e disfare senza nessuna pretesa, dopo che ho dato sapete cosa, e non sapete quanto, dopotutto, qualche gratificazione finalmente arriva. Oh, nulla di speciale, in fondo, né mi aspettavo chissà che cosa, ma dei ringraziamenti di cuore, la certezza di avere fatto un buon lavoro, di avere avuto l'idea che ha sbloccato una situazione importante, un bel progetto in crisi che si è rimesso in piedi, conciliare personalità apparentemente contrastanti fino all'incompatibilità... effettivamente è gratificante.

Il fatto, in sé, è forse non particolarmente significativo, tranne per i presenti, ma credo che segni un punto di svolta nella mia attività. Spero solo di saperlo cogliere nel modo giusto... facciamo un po' di cronistoria: oggi, per la prima volta in quattordici anni che lavoro per la stessa azienda, sono stato mandato fuori ufficio, cosa già di per sé straordinaria, per partecipare ad una riunione con un cliente... da solo ed in veste di responsabile per la grafica! Perdinci, ancora un po' e divento il direttore artistico! Non basta, la riunione aveva una criticità per via della contestazione dello stile della giornalista che coordina e redige i testi... una seria professionista ed un'amica, che ho sofferto a vedere in difficoltà. Per farla breve, l'incomprensione tra lo chef (oh, ovviamente è un libro di cucina) e la mia amica stava facendo salire la tensione alle stelle, ed a poco serviva il mio materiale, che pure tutti continuavano a lodare senza entrare troppo nel merito, per rasserenare l'atmosfera. Quando mi sono reso conto che i toni stavano salendo un po' troppo, ho preso il coraggio a due mani (sic!) e sono intervenuto. Ho detto la mia, senza riflettere troppo, badando più ad un accento di conciliante professionalità che non al contenuto... e mentre parlavo (mirabilia!) sono accadute due cose: primo, mi stavano ascoltando tutti... secondo, da non so dove, ho tirato fuori un'idea che ha messo tutti d'accordo, e che (mirabilia due!) funziona perfettamente!

Ragazzi, è stato un momento irripetibile... il mio spirito pavone ancora gongola.

La carica che mi ha dato questo in fondo piccolo evento mi ha fatto riflettere sul valore che la gratificazione ha per chi lavora, quale che sia il lavoro che fa. Essere gratificati, molto spesso, fa la differenza tra un lavoro ben fatto ed uno totalmente inutile. Essere gratificati può anche non avere una valenza economica, anzi, molto spesso un ringraziamento  fatto bene vale più di mille aumenti di stipendio (per quanto... ogni tanto...), ma soprattutto la gratificazione ha il significato profondo del rispetto verso chi lavora e verso il lavoro che svolge, ed è una cosa che dovrebbe essere assolutamente normale, quasi ovvia, per un datore di lavoro di qualsivoglia tipo. Rispettare il lavoro, e la persona che lo fa, è una delle molle più potenti per realizzare qualsiasi cosa, per generare entusiasmo, attenzione, dedizione, diminuire in maniera drastica gli errori, ottenere il mitico "presto e bene" che è benzina indispensabile per il motore economico generale. La domanda che sorge spontanea è: ma perché è così difficile da capire? Lavoro, e si può dire che vivo, in un'azienda dove il concetto fondamentale è "chi lavora per me mi sta fregando qualcosa", e non a caso la crisi si è sentita, eccome... e chi è rimasto sta stringendo i denti e la cinghia per superare il senso di disagio di questo presupposto. È qualcosa che "inquina" nel senso più deleterio del termine, avvelena i rapporti non solo tra il lavoratore e il datore di lavoro, ma tra gli stessi dipendenti: astio e ripicche, il "non è una mia mansione", denigrare costantemente il lavoro altrui non è un bel modo per lavorare in squadra. Eppure basterebbe così poco... e, nel mio piccolo, cerco e cercherò sempre di dare l'esempio. Anche perché mi diverte lavorare, e voglio continuare a divertirmi, a dispetto di tutto e di tutti, nella mia disinvolta anarchia, nella mia istintiva professionalità, con tutte le mie forze.

Perché credo che il diritto al lavoro e il diritto alla felicità sono in buona sostanza la stessa cosa.