domenica 19 luglio 2009

Cibo per l'anima

Bene, sono giunto alla conclusione che il cibo per l'anima è il cibo stesso. Meglio, la preparazione dello stesso. È domenica, ci siamo alzati tardi, l'aria non troppo rovente di questo torrido luglio ha lasciato un po' di requie alle stanche membra e ci siamo messi, io e Donatella, a preparare varie cose per il pranzo di oggi e per la settimana. Battuti di aglio e prezzemolo, carne trita da impastare con uova e pane ammollato nel latte, polpette e polpettoni, salsa di pomodoro fatta in casa, dai pomodori dell'orto del vicino che molto carinamente ci regala, peperoni ripieni dello stesso impasto di carne delle polpette... non ne avevo, ma mi è venuta fame.

La cosa più bella, però, è stato il cambio d'umore che è sopravvenuto man mano che le preparazioni andavano avanti: ho sentito Donatella canticchiare, io stesso mi sono trovato a miscelare con energia ed entusiasmo, a mani nude, quasi due chili di carne trita, con una serenità d'animo che mi ha sorpreso.

Il cibo, da sempre, è uno dei centri dell'attività umana: dalle preparazioni degli chef superstellati al malinconico piatto pronto surgelato, è un fulcro attorno al quale ruotano cultura, quotidianità, interessi economici, lavoro di milioni di persone. Tuttavia, credo che una delle parti principali della sua essenza vada lentamente ma inesorabilmente svanendo... la preparazione del cibo, da quello di tutti i giorni ai menu per le occasioni speciali, viene sempre di più percepita come una fatica inutile, un di più rispetto al piacere primario del mangiare, del degustare, del semplice sfamarsi.

Sono dell'opinione che sia un grossolano errore. La preparazione del cibo è, credo debba essere, parte integrante del cibo stesso. Non a caso i pasti rituali più importanti prevedono tuttora una preparazione che deve essere rigorosamente manuale, e che è essenziale alla buona riuscita non solo del pasto, ma del rito in quanto tale. La celebrazione dell'agnolotto non è solo sedersi a tavola e gustarlo, ma prepararlo e trasferire nella degustazione tutto il racconto della preparazione stessa, come un'omelia concomitante alla comunione. Preparare il cibo partendo dalle materie prime, a volte coltivare o allevare le stesse materie prime, è un'operazione che coinvolge tutti i sensi, un training che prelude alla degustazione, all'assunzione di energia attraverso il cibo, trasformandola in qualcosa di più che mettere benzina nel serbatoio. È come se preparando da me il pasto, trasferissi una parte della mia energia nel cibo, energia che poi torna, moltiplicata dal piacere della degustazione. Non si dice sempre che le cose che ti prepari da solo (o quelle che ti preparava mamma, o nonna, o tua moglie...) hanno un sapore diverso? Non si continua a dire, nonostante tutto, che le cose fatte in casa sono migliori?

Certo, la scusa principale è, a buon diritto, "ma chi ha il tempo di mettersi a preparare le cose?". È vero, il quotidiano ormai viene completamente assorbito da attività di sopravvivenza di altro tipo, leggi principalmente lavoro, il poco tempo che rimane deve essere dedicato alle attività sociali, altrimenti si finisce per abbrutirsi, dunque non resta molto tempo da spendere in riti che vengono molto spesso visti come retaggi di ere antiche... e molto maschiliste.

Credo, però, che sia necessario un cambio di direzione. Non tanto, o non solo, a causa del tempo di crisi che stiamo vivendo (avete fatto il conto di quanto costa un'insalata già pulita in busta contro quella fresca da pulite?), ma piuttosto per recuperare una socialità che è antichissima, quasi atavica, imperniata tutta sul valore del cibo come elemento di sopravvivenza della comunità, come tale spesso elemento sacro (basti pensare a quali e quanti dèi fossero impegnati in attività legate al cibo) che andava diviso e condiviso con tutti.

A ben guardare, sarebbe quasi una svolta epocale... tornare indietro per poter andare avanti. Non sarebbe certo cosa indolore, né poco faticosa, ma comporterebbe un tale cambiamento di mentalità che forse, e sottolineo forse, si potrebbe riuscire a vedere la luce in fondo al tunnel. Che è a tutt'oggi piuttosto buio. Chissà, potrebbe essere illuminato da un fornello da cucina...

martedì 14 luglio 2009

Un minuto di silenzio

A quanto pare, questo è il valore medio di una vita umana. Un minuto di silenzio. Un altro ragazzo è morto in Afghanistan, altri sono rimasti feriti, l'ennesimo atto di una tragedia che non ha ancora scoperto il suo senso.

Paesi in un altro mondo, di un altro mondo, dove la nostra percezione della realtà sembrerebbe il sogno ad occhi aperti di un etilista cronico, dove la realtà del quotidiano convive con le armi e la violenza viene sentita come una normale compagna di vita. Paesi in cui piombano come alieni dei ragazzi, addestrati a combattere, ma non a vivere con la morte accanto, ancora pieni dell'atmosfera dei centri commerciali, con l'iPod nel taschino della mimetica, e Full Metal Jacket come modello di comportamento. Un film... che molto presto scivola nell'horror.

Non so immaginare come debbano sentirsi, sono troppo lontano, decisamente distante, ma posso immaginare il livello di straniamento che può colpirli assieme alla bomba, il raddoppiarsi di uno shock tremendo, in un istante. Una cosa così... a me? Ma non ero invulnerabile? Forse sbaglio, ma credo mi sentirei così.

Con tutto ciò, i culi caldi (scusate per il caldi) si costernano, si indignano, si impegnano, e indicono un minuto di silenzio. Forse, in quel minuto sarebbe stato il caso di far loro sentire il fragore dell'esplosione, le grida, le bestemmie, i lamenti, l'orrendo lacerarsi di carni e lamiere... proprio mentre stanno a capo chino, a pensare a tutt'altro. Forse, dopo, avrebbero apprezzato di più quel silenzio.

E avrebbero continuato a tacere.

domenica 12 luglio 2009

Kernel panic

Come in tutti i film che iniziano con un flash forward, già si sa che ho risolto. Tuttavia l'esperienza è stata traumatica, al limite dell'attacco di panico, e mi ha insegnato molte cose.

Premessa per i non utenti della mela morsicata: il cosiddetto kernel panic è il peggior segnale che un MacIntosh possa dare... d'improvviso una tendina grigia cala lentamente sullo schermo, ed una finestra di avviso ti informa che il computer è andato in crash, devi spegnerlo con la procedura d'emergenza, e sperare.

Ho eseguito, ovviamente, ma la speranza è stata tradita: il Mac, il MIO Mac, non si è riacceso. Lo schermo è rimasto ostinatamente nero, e le ventole hanno messo il turbo. Una, due, tre, quattro volte... niente. Tasto il case con l'ansia di una mamma che sente se il bimbo ha la febbre... è bollente. Inghiotto il rospo, devo aspettare che si raffreddi, mi dico. Un'ora e mezza dopo (una vita e mezzo, forse) tento di nuovo, lo ammetto, con mani leggermente tremanti. Il tradimento più grande: ancora nulla.

Sono ormai le undici di sera, provo a farmene una ragione, decido di non pensarci (ma si può?) e me ne vado a letto. Forse un tantino nervoso. Mi addormento tardi, e dormo male, alle cinque del mattino sono già sveglio. Gli occhi sbarrati a fissare le prime luci che riverberano sul soffitto, indeciso se provare ancora o no. Ma dura poco. Mi alzo, in silenzio, mi chiudo nella cameretta, al buio trovo l'accensione, la premo, aspetto.

Mai chiaror d'alba fu più bello.

Senza entrare nel merito del dopo (backup selvaggio, ovviamente), questa disavventura contiene dei profondi insegnamenti. Mi ha fatto capire che non sono invulnerabile, che "certe cose" possono capitare anche a me, che non sono immune da eventi fuori del mio controllo e che prendere precauzioni non è solo cosa buona e giusta, ma è un indispensabile antidoto contro la stupidità, propria o altrui che sia. Mi ha dato la misura della fragilità non solo mia ma delle strutture cui faccio affidamento nelle acrobazie del quotidiano, acrobazie che, come tutti, eseguo disinvoltamente, ma senza rete. Eppure proteggersi si può.. forse solo con un po' di fatica in più, ma ho avuto la prova provata che vale la pena.

Del resto, nessuno è invulnerabile, ma tutti possono diventare più forti.