Le cose che devo fare sono tutte necessarie, indispensabili, generalmente utili, a volte sostanzialmente imprescindibili. Ma rimando. Deve essere una forma di autopunizione, di masochismo, un crogiolarsi nell'autocommiserazione che giustifica e fornisce alibi a sensi di colpa di dubbia e incerta provenienza.
Poi, d'un tratto, prendi una decisione e fai una cosa. Una di quelle che proprio dovevi fare. E ti senti un po' meglio. Raddrizzi le spalle, fai un bel respiro, ti pavoneggi anche un po'. E, ma guarda che strano, ti viene voglia di farne un'altra. Perché quella sensazione è stata proprio bella, appagante, liberatoria. Ti ha dato l'impressione di essere il padrone del vapore, l'omino Black&Decker, Wolf, quello che risolve problemi. Perché non ripetersi? Fanne un'altra, e poi un'altra ancora, in un parossismo di attività che riscatti una volta per tutte gli anni di ignavia consapevole e colpevole.
Questi due ritratti sono le mie due facce, i due lati di una medaglia non particolarmente meritata che gira come una trottola impazzita, frullando nell'aria in un bagliore confuso prima di ricadere a terra.
La parola chiave è "confuso". Ammetto di esserlo, forse più della media, e reagisco alla mia confusione con un vago senso di irritazione che mi porta verso posizioni anarchiche, quasi a staccarmi dai doveri imposti per essere, per sentirmi libero di fare quello che ritengo giusto. E di cose ne faccio, alla fin fine. Difficilmente, però, sono le cose che devo fare.
Ma questo, in fondo, è solo un alibi.
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