La cosa più bella, però, è stato il cambio d'umore che è sopravvenuto man mano che le preparazioni andavano avanti: ho sentito Donatella canticchiare, io stesso mi sono trovato a miscelare con energia ed entusiasmo, a mani nude, quasi due chili di carne trita, con una serenità d'animo che mi ha sorpreso.
Il cibo, da sempre, è uno dei centri dell'attività umana: dalle preparazioni degli chef superstellati al malinconico piatto pronto surgelato, è un fulcro attorno al quale ruotano cultura, quotidianità, interessi economici, lavoro di milioni di persone. Tuttavia, credo che una delle parti principali della sua essenza vada lentamente ma inesorabilmente svanendo... la preparazione del cibo, da quello di tutti i giorni ai menu per le occasioni speciali, viene sempre di più percepita come una fatica inutile, un di più rispetto al piacere primario del mangiare, del degustare, del semplice sfamarsi.
Sono dell'opinione che sia un grossolano errore. La preparazione del cibo è, credo debba essere, parte integrante del cibo stesso. Non a caso i pasti rituali più importanti prevedono tuttora una preparazione che deve essere rigorosamente manuale, e che è essenziale alla buona riuscita non solo del pasto, ma del rito in quanto tale. La celebrazione dell'agnolotto non è solo sedersi a tavola e gustarlo, ma prepararlo e trasferire nella degustazione tutto il racconto della preparazione stessa, come un'omelia concomitante alla comunione. Preparare il cibo partendo dalle materie prime, a volte coltivare o allevare le stesse materie prime, è un'operazione che coinvolge tutti i sensi, un training che prelude alla degustazione, all'assunzione di energia attraverso il cibo, trasformandola in qualcosa di più che mettere benzina nel serbatoio. È come se preparando da me il pasto, trasferissi una parte della mia energia nel cibo, energia che poi torna, moltiplicata dal piacere della degustazione. Non si dice sempre che le cose che ti prepari da solo (o quelle che ti preparava mamma, o nonna, o tua moglie...) hanno un sapore diverso? Non si continua a dire, nonostante tutto, che le cose fatte in casa sono migliori?
Certo, la scusa principale è, a buon diritto, "ma chi ha il tempo di mettersi a preparare le cose?". È vero, il quotidiano ormai viene completamente assorbito da attività di sopravvivenza di altro tipo, leggi principalmente lavoro, il poco tempo che rimane deve essere dedicato alle attività sociali, altrimenti si finisce per abbrutirsi, dunque non resta molto tempo da spendere in riti che vengono molto spesso visti come retaggi di ere antiche... e molto maschiliste.
Credo, però, che sia necessario un cambio di direzione. Non tanto, o non solo, a causa del tempo di crisi che stiamo vivendo (avete fatto il conto di quanto costa un'insalata già pulita in busta contro quella fresca da pulite?), ma piuttosto per recuperare una socialità che è antichissima, quasi atavica, imperniata tutta sul valore del cibo come elemento di sopravvivenza della comunità, come tale spesso elemento sacro (basti pensare a quali e quanti dèi fossero impegnati in attività legate al cibo) che andava diviso e condiviso con tutti.
A ben guardare, sarebbe quasi una svolta epocale... tornare indietro per poter andare avanti. Non sarebbe certo cosa indolore, né poco faticosa, ma comporterebbe un tale cambiamento di mentalità che forse, e sottolineo forse, si potrebbe riuscire a vedere la luce in fondo al tunnel. Che è a tutt'oggi piuttosto buio. Chissà, potrebbe essere illuminato da un fornello da cucina...
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